gieffe
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« il: Maggio 22, 2007, 12:47:53 » |
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Affari di governo? «Ho sognato l’utopia della non-politica» Attività di servizio? Arte della mediazione? Tecnica d’occupazione, piuttosto. La politica è un mestiere per chi non ha mestiere. I costi che sopporta in Italia sono i più alti d’Europa: per non parlare di vizi, sprechi, privilegi diffusi a tutti i livelli: dai Comuni al colle più alto della Repubblica. Non basta. L’intreccio fra partiti e potentati economico-finanziari è così fitto che - come dimostrano il caso Telecom e, in ultimo, la fusione Unicredit-Capitalia - il governo pare un consesso di portavoce dei banchieri. Deprecati un tempo come collettori di tessere, al giorno d’oggi i partiti si accaparrano azioni e distribuiscono dividendi. Ieri D’Alema lo ha ammesso: «Rischiamo una seconda Tangentopoli». E allora? «La politica è affare per gente cenciosa. Vi si accosta la parte peggiore della comunità. Lo stesso uso di un’espressione come "potere politico" porta con sé oramai qualcosa di offensivo, di oltraggioso. Potere di chi? Su che cosa? Nel nome di che?» Manlio Sgalambro è, certo, un testimone sospetto. Anni addietro, il filosofo catanese scrisse un pamphlet il cui titolo dice ancora tutto: Dell’indifferenza in materia di società. Contro l’«elogio della politica», contro l’illusoria ovvietà dell’interesse sociale, e la falsità del benessere collettivo, batteva un colpo da maestro di zen per scuotere il cuore, svegliare il cervello, che ciascuno di noi può sempre opporre, se vuole, alle slavine collettive. Oggi, se possibile, il maestro è ancora più lapidario: «Dove sono gli intellettuali? Dove sono quelli che io preferisco chiamare chierici? Non ne vedo molti in giro con gli occhi aperti e le orecchie tese. È venuta meno la funzione critica del chierico verso i cosiddetti reggitori della cosa pubblica. Al posto dei chierici, sono arrivati i clericali. La politica orfana d’ideologia, si aggrappa alla religione. Non a una religione, beninteso: alla religione cattolica». Ma è proprio la Chiesa, oggi in Italia, l’unico partito ancora ideologicamente intatto. Non le pare? «Se così fosse, mi verrebbe da vagheggiare un regno di utopia della non-politica. Se l’utopia è un non-luogo, forse il non-luogo è amministrabile dalla non-politica o dall’impolitica». Un non-luogo? Forse perché tutti i luoghi disponibili, o immaginabili, se li sono già spartiti i politici o li hanno dati in affitto a gente che lavora per loro? «La politica ha bisogno non di governare, ma di occupare spazi. Spazi pubblici e privati. Spazi reali e spazi mentali. Ne abbiamo fatto l’esperienza nei totalitarismi. Ma pure la democrazia non ci mette al riparo dalla politica d’occupazione». Quella italiana, poi… I legami fra politica e affari, i legacci fra governo e mercato, da noi assumono connotati perversi. A che tipo di degenerazione stiamo assistendo? «Non è un tralignare, no. Piuttosto, è un disvelarsi. Il problema è che, alla lunga, la democrazia svela gli arcana imperii. Prenda l’America: non si fa che parlare dell’insipienza di Bush ma, a guardar bene, è la democrazia americana che si scopre insipiente». Tornando all’Italia? «Direi che non è semplice separare la politica e il mercato. Certo, ci sarebbero le leggi. Altre se ne potrebbero fare. Non ricordo più, sinceramente, da quando si parla di trasparenza, di conflitto d’interessi… Ma la mia sensazione è duplice: da una parte, vedo l’intangibilità, la lunga durata di una casta che ha il solo scopo, non di riprodurre, bensì di perpetuare se stessa. Dall’altra parte, mi pare che quanto un tempo si chiamò borghesia, o classe dirigente, abbia fatto propria la teoria marxiana della struttura». Nel senso che sovrastruttura è adesso l’economia o la finanza? «Tutt’al contrario. Nel senso che l’economia - la quale, secondo Marx, determina la politica - non fa più nulla per nascondere questo fatto dietro la soprastruttura dei partiti, quali che siano. Semplicemente, se ne serve. E quanto alla politica, o ai politici, sono essi stessi agenti di questa inversione di tendenza. Agenti di scambio. O, forse, di cambio. Non so se è chiaro…». Quel che non è chiaro è se tutto ciò dispiaccia davvero ai cittadini-elettori. «Di sicuro, non dispiace ai giornali. O almeno a quelli che hanno smesso di vigilare, di esercitare il controllo. A me sembra aberrante che i grandi giornali tessano le lodi della longevità, della forza di governi che non riescono a operare perché non cessano di discutere». Ma la stabilità in Italia, dopo decenni di governi balneari, è un totem. Perché mai, altrimenti, si vorrebbe una riforma elettorale capace di renderli ancora più saldi? «Appunto, la stabilità per la stabilità. Nel nome della durata delle calze. Ma quando mai? Abbiamo avuto in passato governi fragilissimi, ma laboriosissimi. Furono i più ballerini dei governi Dc-Psi a fare le riforme su cui si regge ancora il Paese. La loro debolezza intrinseca funzionava da spinta ad agire presto, al meglio possibile. Adesso, invece, l’obbligo di restare a galla cinque anni è un incentivo a negoziazioni infinite: si alleano, si disalleano, si riuniscono, si frantumano… Dirò di più: personalmente, considero nefasto l’esempio indotto dall’elezione diretta dei sindaci. Oggi, un sindaco è nelle condizioni di non dover rispondere a nessuno. Rimpiango, sì, rimpiango i vecchi, rissosi, parolai consigli comunali. C’era uno straccio di confronto. Un minimo di controllo». Chi parla è Manlio Sgalambro Giuseppe Testa (da "La Sicilia" del 21 maggio 2007)
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